Il rifugio atomico (Billionaires’ Bunker in inglese giusto per far capire chi c’è nel rifugio) è una nuova serie tv spagnola di Alex Pina ed Eshter Martinez Lobato che non sono altro che i creatori di quel fenomeno spagnolo chiamato La Casa di Carta. Ma lasciando in un angolo nascosto della memoria, l’illusione collettiva creata dalla rapina al Banco di Spagna, Il Rifugio atomico è una serie tv di plastica come le tutine blu e amaranto che indossano i suoi protagonisti.
La sensazione è di trovarsi davanti a una serie tv costruita dalla peggiore intelligenza artificiale che ha mescolato vari input vagamente ritenuti di successo proprio sulla scia di La Casa di Carta, innestati su quella stessa base di melodramma spagnolo da telenovela di cui era già piena la precedente serie di Alex Pina. Ci sono le tutine, c’è il luogo stretto e claustrofobico in cui ambientare il tutto, c’è la musica, c’è il passato, ci stanno le storie d’amore e c’è pure quel senso di rivalsa sociale che già era presente nella precedente serie.

Senza voler far spoiler ma è necessario almeno indicare questo aspetto, superato il telefonatissimo colpo di scena del finale della prima stagione, ci troviamo davanti a una telenovela rinchiusa nei confini di un bunker per super ricchi, con muri di cartone e rifiniture di plastica, in cui per qualche ragione è indicata un’uscita di sicurezza che però è stata nascosta (ma perché inserirne l’indicazione?). Sfruttando le paure contemporanee di un’imminente terza guerra mondiale, la serie imbastisce una trama che inizialmente sembra anche poter funzionare, ma che si perde nei rivoli di dinamiche insopportabilmente da soap opera con al centro due famiglie di iper ricchi che non pensano altro che a scopare l’uno con l’altro.
L’ossessione per il sess0 sembra essere l’unica ragione di vita anche in punto di morte. Il tutto mentre i personaggi hanno lo spessore di una carta velina e sono tutti monodimensionali, privi di sfumature. Il rifugio atomico è una serie tv che non deve far pensare lo spettatore, quelle che sono le reazioni dei protagonisti devono essere evidente, devi saper distinguere a colpo d’occhio buoni e cattivi, devi poter anticipare quello che potrebbe succedere.

Pensare è sopravvalutato, pensare ti porta a notare cose che a posteriori ti fanno reagire “ma dai su…” come dei caccia che sorvolano proprio il protagonista o un video visto sul cellulare in cui entrambe le persone presenti nel video sono riprese da lontano (wait what? WTF?). Oppure, banalmente, perché questi super ricchi accettano di entrare in un bunker per cui hanno pagato milioni di dollari, mollando cellulari, vestiti, accettando di indossare delle tute blu in gomma, tutte uguali, senza batter ciglio.
Il rifugio atomico non è un’occasione sprecata è semplicemente quello che era lecito aspettarsi da questa serie. Perché è esattamente quello che era La Casa di Carta, diventata di culto per qualche artifizio comunicativo ben riuscito (le maschere, le tute rosse, Bella Ciao, i nomi delle città), ma soprattutto perché ha intercettato quel momento di diffusione di Netflix in cui era identificata come la panacea seriale. E una dimenticata serie spagnola, mezzo flop anche in patria, è diventata un fenomeno globale, rendendo il melodramma spagnolo un’abitudine di una certa serialità. Ma ormai il tempo delle allucinazioni collettive speriamo sia finito. Speriamo.
Il rifugio atomico
Il rifugio atomico è una soap opera spagnola travestita da mystery thriller, in cui la ricerca del colpo di scena (telefonato) si scontra con il desiderio carnale dei protagonisti
Voto:
5/10