Pur detestandola, probabilmente guarderei Emily in Paris anche se non dovessi scriverne. Come ho già scritto in passato, nonostante avessi trovato la prima stagione a suo modo brillante, nella sua frivolezza e superficialità di fondo, dalla stagione due in avanti è stato un crescendo di antipatia mista a fastidio.
L’arrivo della serie in Italia ha contribuito ad appiattire ancora di più trama, personaggi e dinamiche narrative, per colpa di una scenografia da cartolina sempre meno realistica e sempre più stereotipata.
Emily in Paris, perché la guardiamo?
In questi anni mi sono chiesta spesso perché continuassi a guardarla, a parlarne e, in fondo in fondo, ad aspettare persino l’uscita dei nuovi episodi, tanto da chiederli in anteprima – cosa che non sempre faccio (non ho quella FOMO che hanno molti dei miei colleghi).
Interrogandomi sul perché io e molti altri nutrissimo così tanta curiosità verso Emily, sono arrivata a un paio di conclusioni che mi sembrano piuttosto calzanti. Ricorrere in questo caso al “guilty pleasure” sarebbe troppo semplice: un guilty pleasure, del resto, lo guardi con piacere, con affetto. Emily no.
Perché il suo riuscire a banalizzare ogni cosa non è da tutti.
Eppure, come qualcosa di rassicurante, Emily in Paris va oltre gli outfit ridicoli, le battute scontate e semplicistiche, le trovate di marketing paradossali e la continua sponsorizzazione di brand internazionali.


Combatte la streaming fatigue
Emily in Paris placa per qualche ora la streaming fatigue che, soprattutto per chi come me cerca di sconfiggerla guardando e analizzando serie per trovare le migliori da consigliare agli altri, si fa sempre più aggressiva.
Per chi non lo sapesse, la “streaming fatigue” (o stanchezza da streaming) è la sensazione di sovraccarico, frustrazione ed esaurimento che provano gli spettatori di fronte all’eccesso di piattaforme, servizi in abbonamento, infinite scelte di contenuti e costi mensili che si accumulano, portandoci spesso a sentirci sopraffatti piuttosto che intrattenuti.
Ecco: sapere che, per la durata di dieci episodi (circa cinque ore), posso mettere in stand by il cervello e guardare qualcosa di prevedibile, ovvio, scontato — seppur pieno di colpi di scena e plot twist — è in qualche modo rassicurante.
E anche se mi innervosisce, sono disposta a scendere a compromessi per qualche ora, per riposare il cervello. Intendiamoci: pratico mindfulness, meditazione, ricorro al DIY e ad altri hobby, non vivo solo di tv e serie tv. Ne parlo in questo modo per il contesto in cui sto scrivendo, chiaramente.
Emily in Paris…come un film di Natale
Ciò che accade in Emily in Paris è rassicurante, come nei film di Natale, come nel rewatching infinito di una serie del cuore.
Sapere cosa ci si aspetta è rilassante: Emily racconta una vita semplice, priva di tutte le incognite e le complessità dell’esistenza ordinaria. Affronta temi adulti in modo così semplice da aiutarci a mettere le cose in prospettiva e indurci a pensare che, alla fine, ogni problema abbia una soluzione.
E che, anche se non è così, per quelle cinque ore vogliamo crederci.
C’è poi una componente di escapismo e felicità visiva che sarebbe ingenuo ignorare. Emily in Paris è una specie di frullato felice di immagini belle: Parigi sempre perfetta, la moda, il cibo, le situazioni romantiche irreali, una vita che sembra scorrere senza attriti veri.
Anche i critici riconoscono che la serie, pur non essendo realistica, offre una visione luminosa, giocosa e visivamente piacevole, che funziona proprio perché non pretende di aderire alla realtà. È una cartolina televisiva da una città ideale.
È anche per questo che continuiamo a guardarla: non perché cerchiamo profondità o verità, ma perché, ogni tanto, abbiamo bisogno di un piccolo dream world temporaneo in cui rifugiarci, senza farci troppe domande.
Quindi no, Emily, neanche questa stagione mi ha convinta, ma almeno dopo tutti questi anni ho capito perché non smetto di guardarti e detestarti, ma anche, in fondo, di volerti un po’ bene. Sei un rifugio temporaneo, e ogni tanto, soprattutto nei momenti difficili, anche i rifugi imperfetti servono.
