Task è l’ennesimo tassello del mosaico ideale delle produzioni HBO. I vari network e poi le piattaforme lavorano da anni per avere una loro identità ben definita, ABC è la rete familiare, NBC quella del popolare ma con gusto, CBS la rete dei procedurali, Netflix è il grande magazzino che accontenta tutti, Apple è l’album delle figurine delle star. Non perdere questa riconoscibile identità è la necessità di ogni singolo network ed è così che si spiega il balletto di nomi della piattaforma di streaming di Warner Bros Discovery passata da HBO Max a Max e viceversa, passata dal tentativo di staccarsi da quella identità per non confondersi a quello di uniformarsi. Ed è così che è nata The Pitt, perfetto esempio di una serialità tradizionale, popolare ma al tempo stesso con una sua identità autoriale e tematica chiara e ben definita.
Sky, in Italia ancor più che nel Regno Unito o in Germania, ha plasmato la sua identità seriale proprio sui titoli HBO, sviluppando originali che potessero essere dello stesso livello qualitativo. L’addio dei canali del gruppo Fox e di quell’apporto familiar-generalista ha portato anche Sky ad allargare lo spettro delle sue produzioni, cercando dei titoli che mantenessero quella qualità ma che fossero più larghi. L’arrivo di HBO Max e la perdita dei futuri titoli HBO è un duro colpo per Sky ma lo è ancor di più non solo non avere un accordo per veicolare in qualche modo quella piattaforma, ma anche ritrovarsi con un concorrente produttivo per la stessa tipologia di potenziali titoli originali. Alcuni titoli passati per Sky finora non sarebbero potuti andare su nessuna altra piattaforma o network. Da gennaio 2026 l’alternativa esiste.
Task, la recensione
Tutta questa inutile e logorroica premessa è per sottolineare come Task rappresenti quell’identità di HBO, quella ricerca di titoli capaci di aprire una finestra sul presente senza cercare un compromesso perché devono piacere a tutti (cfr. Netflix) ma mantenendo una loro chiara identità. Non solo ma capaci di essere delle miniserie che hanno un senso di esistere e non sono soltanto dei film allungati per riempire spazi ed evitare che la gente possa provare qualcosa di diverso. La qualità contro la quantità, il raggio di luce contro la bulimia seriale.

Brad Inglesby ci riporta in quella periferia profonda e dimenticata, lontana dai grattacieli, dagli eventi glamour, fatta di casette monofamiliari, di enormi distese di verde, di strade in popolate di nulla. In questo nulla profondo, in cui le alternative sono poche, l’ordine è gestito da alcuni gruppi di motociclisti che si spartiscono il territorio e trafficano in armi e droghe. Quando proprio le case di questi spacciatori, di chi muove soldi e droghe, vengono prese di mira da un gruppo di misteriosi criminali, l’FBI organizza una task force che finisce per essere guidata da un agente consumato dagli anni e dagli eventi personali.
Nella somma di queste infinite tragedie, Inglesby inserisce una continua caccia all’uomo, tesa e imprevedibile, sottolineata da una musica incalzante e sempre coerente con la scena, presente ma senza mai essere invadente. Non è la musica a creare l’emozione ma serve a sottolinearla. Sono questi dettagli a rendere un prodotto di qualità, come una sceneggiatura impeccabile, in cui anche le inevitabili necessità di spiegare gli eventi passati che hanno portato alle situazioni presenti dei protagonisti, vengono inserite in modo coerente, senza risultare una forzatura nel discorso ma essendovi perfettamente inseriti all’interno.
Mark Ruffalo è un Tom Brandis perfetto, un agente segnato dal dolore vissuto, dagli anni che passano, che vive con sofferenza il nuovo incarico ma ha un senso del dovere che lo porta a superare tutto, anche la difficile situazione familiare. Ruffalo/Brandis incarna quella resistenza di un mondo apparentemente superato dalla modernità, in cui alcuni valori perseverano e si cerca di mantenerli nonostante tutte le ingerenze esterne. Un agente che sa che oltre le regole e la burocrazia c’è la vita. Una figura paterna e rassicurante che sembra sempre più diradata e scomparsa in un mondo incattivito.
L’antagonista Robbie Prendergrast (Tom Pelphrey) è l’uomo normale spinto dalle sofferenze, dalla precarietà dell’esistenza oltre la soglia del lecito e del consentito, oltre quello che la sua stessa moralità gli consiglierebbe di fare. Ma non può essere altrimenti in un mondo che ha perso ogni riferimento e parametro. La società dei bikers con le loro regole imposte con la violenza, con quel senso di rispetto familiare e delle gerarchie tipico delle società tribali, rappresentano l’estremizzazione di una deriva che è in atto e che stiamo vivendo negli USA e nel mondo. La legge del più forte che impone il controllo, in cui non c’è spazio per il confronto e il dialogo, in cui l’unica soluzione è l’eliminazione o la sconfitta del nemico.
Task, da domenica 12 ottobre su Sky e NOW in Italia, è una miniserie da non perdere. Sicuramente funziona meglio nelle parti in cui prevale l’aspetto tensivo dell’azione, meno nelle varie dinamiche familiari che a tratti risultano un po’ ridondanti e non necessarie ai fini del racconto complessivo. Nell’equilibrio delle sette puntate alla fine tutto si regge, ed anche in questo caso, come fu per Mare of Easttown, la speranza è che si rifugga l’idea di realizzare un seguito proseguendo la storia del protagonista Tom Brandis.
Summary
Task è una miniserie tesa e profonda che si inserisce perfettamente nell’immaginario creato da HBO. Tratteggia uno scenario in cui la violenza nasce nel dolore e nella sofferenza di chi non ha nulla oltre quel mondo in cui è cresciuto.
Voto:
8.5/10