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Sono Lillo la recensione: la ricerca della felicità di un comico oltre i tormentoni

Lillo odia Posamen? Sono Lillo è un grido di aiuto disperato o un messaggio d’amore incondizionato? Il dubbio in realtà non esiste, Sono Lillo è una serie tv nata da un tormentone come negli anni ’90 si facevano i film tv di Canale 5 con i comici del Bagaglino o, volendo fare un paragone più lusinghiero, come è nato Ted Lasso. Anche la serie tv di Apple Tv+ è infatti nata da uno sketch televisivo in una trasmissione sportiva americana.

Sono Lillo non ha ambizioni così alte. Sulla base delle tre puntate su otto che Prime Video ha inviato in anteprima, la serie ha il pregio di cercare di creare una storia capace di dare un’identità a Lillo senza però snaturarne la comicità. Ma ha anche quel difetto che da sempre ha reso impossibile la nascita di comedy in Italia: la costruzione per sketch. Il genere comedy puro, da sit-com da 30 minuti nel nostro paese non ha mai avuto troppa fortuna, vuoi per la difficoltà di collocarlo in palinsesto, vuoi per la voglia di inseguire la comicità da spettacolo televisivo. Sono Lillo in parte ci riesce creando un prodotto equilibrato pur senza incidere in modo profondo.

Sono Lillo la recensione di una serie che funziona a metà

Partiamo da un presupposto, questa recensione è provvisoria perchè tre puntate per una comedy non sono sufficienti per giudicarla, Sono Lillo porta in formato seriale la comicità surreale di Pasquale Petrolo in arte Lillo, nella versione più “popolare” rispetto a quella che l’ha reso famoso in coppia con Greg. Dopo l’esplosione della prima stagione di Lol, Lillo è diventato una sorta di “feticcio” di Prime Video (da Generazione Lol, alla seconda stagione, allo special Natalizio per poi passare al film di prossima uscita). E questa serie tv è la sublimazione del Lillo targato Amazon, costruita sull’equilibrio tra la necessità di sfruttare un “brand” e quella di non svilire la carriera di un comico che non ha mai inseguito i tormentoni.

Nella serie Lillo è una versione parallela di se stesso, alle prese con l’invadente Posaman che lo fa finire anche in mano ai camorristi per colpa di un agente (interpretato da Pietro Sermonti ormai a suo agio nei ruoli esagerati alla Stanis) che ha costruito la propria carriera sul suo successo. Quando la moglie di Lillo, stanca del suo essere inaffidabile, si allontana, il comico prende la decisione di “uccidere Posaman” che però non ha alcuna intenzione di mollarlo. Per cercare di dimostrare la propria maturità, Lillo finisce nelle situazioni più disparate, decidendo di rientrare nell’azienda di famiglia gestita dalla madre e dal fratello minore.

Perchè le guest star da stand up comedy?

Avulsa da tutto il resto è la parte ambientata in un club dove si esibiscono alcuni comici della nuova generazione come Edoardo Ferrario, Valerio Lundini, tormentati dal padrone del locale che dà loro dei suggerimenti dal passato, spingendoli verso tormentoni che non funzionano più. Un confronto generazionale che è anche una critica al mondo della comicità italiano ma che avrebbe funzionato meglio all’interno di un programma comico tv che in una serie tv di cui rappresenta solo un’appendice riempitiva. Eppure guardando al raffinato I’m dying Up Here, raccontare la vita dei giovani stand-up comedian italiani sopra il palco e nella loro vita privata potrebbe essere lo spunto interessante per una serie.

Sono Lillo dopo le prime tre puntate, funziona a metà. Lo spunto è interessante, la comicità di Lillo funziona sempre “si può piangere con il sedano rapa?” resterà uno dei momenti al tempo stesso più divertenti e malinconici di tutto lo stato della comicità italiana. La sceneggiatura delle puntate si incarta troppo sulla ricerca dello sketch a tutti i costi e alcune situazioni risultano troppo forzate o esagerate. Voto 7