Nel mondo patinato di Barbie—quello dove tutto è possibile, ma purché sia rosa—la posizione maschile è sempre stata una faccenda secondaria. Un plus, un accessorio deluxe, un “mettiamo anche lui così non dicono che Barbie è sola”. E mentre Barbie infrangeva tetti di cristallo (con il tacco 12), il povero Ken rimaneva lì, in un angolo, con il sorriso stampato e la permanente responsabilità di essere… decorativo.
Eppure, e qui arriva la parte interessante: “I AM KEN. Storia e Stile” di Massimiliano Capella (24 ORE Cultura) dimostra esattamente il contrario. Ken non era un uomo “di contorno”: era un campo di battaglia estetico e sociale mascherato da bambolo perfetto. Un laboratorio miniaturizzato in cui, senza dirlo troppo forte, si testavano modelli di mascolinità che la società reale non era ancora pronta a digerire.
Perché sì: mentre il mondo vero arrancava nel patriarcato più stantio, tra breadwinner obbligatori e maschi alfa da copertina economica, Ken provava, sbagliava, scintillava.
E a volte scandalizzava, pure.
La timeline del libro (1961–oggi) sembra un manuale di sopravvivenza della mascolinità pop: negli anni ’60 Ken nasce elegante, compìto, il principe consenziente del regno di Barbie; nei ’70 esplode il colore, il glitter, la camicia psichedelica… altro che virilità tossica; negli ’80 diventa yuppie, sì, ma sempre con una grazia talmente plastificata da risultare sospetta; nei ’90 arriva il momento più queer di sempre: Earring Magic Ken.
Quello col gilet lilla, la t-shirt a rete e il famoso pendaglio che ha mandato in tilt mezzo pianeta etero (e fatto ridere tutti gli altri)… Il Ken più venduto della storia—ovviamente.
Negli stessi anni Ken diventa anche Totally Hair (chioma fluente degna di Popstar), Baywatch (lì il queer coding lo percepivi anche da bambino), e tutta una serie di varianti che parlavano chiarissimo a chi cercava rappresentazioni meno rigide del maschile.
Perché mentre il patriarcato reale insegnava ai bambini a “non piangere mai”, Ken… be’, indossava gilet di ecopelle lilla. E funzionava.
La questione è questa: ken è la crisi (meravigliosa) del modello maschile. Il libro mostra come Ken, da “boyfriend di Barbie”, abbia incarnato per decenni un’altra idea di maschile: mai aggressivo, mai dominante, sempre un po’ troppo perfetto, un po’ troppo colorato, un po’ troppo… Ken. Ed è questo che lo rende sovversivo, anche senza volerlo.
Se Barbie è l’icona dell’emancipazione rispetto al mondo reale, Ken è l’icona dell’emancipazione rispetto al mondo di Barbie, dove per essere uomo devi soprattutto non disturbare. Capella lo dice esplicitamente nel volume: “E il paradosso è meraviglioso: nella bambolanza, Ken è più libero dell’uomo reale”.
Dalla kennaissance alle moltiplicazioni identitarie. Non manca nel racconto anche il Ken contemporaneo: dal look urban del 2004 alla rivoluzione dei Fashionistas del 2017 con corpi diversi, pelli diverse, volti diversi.
Un Ken che, finalmente, non è un archetipo rigido, ma un ventaglio di possibilità:
il maschile come pluralità invece che imposizione.
E poi arriva la Kenaissance: Ryan Gosling, i look Miami Vice-gay-friendly, le pellicce morbide, la hit “I’m Just Ken”. Quell’ironia che trasforma la fragilità maschile in show, in liberazione, in icona pop.
E allora sì, diciamolo senza vergogna: Ken è sempre stato più avanti di tutti.
Altro che “accessorio di Barbie”. È stato il primo uomo della cultura pop a capire che per sopravvivere al patriarcato bisogna fare come nei musical: entrare in scena, brillare più del necessario e cambiare outfit prima che qualcuno faccia domande.
E nel mondo reale, dove il maschio alfa si aggrappa ancora al suo trono traballante come se fosse l’ultima sdraio libera a Ostia, Ken balla in infradito glitterate e ti dice “relax, bro, la mascolinità non è un casello autostradale”.
Alla fine, questo libro non solo racconta Ken: lo celebra come archetipo di resistenza pop.
Una bambola che non parla, ma comunica; che non guida la trama, ma la moda;
che non salva Barbie, ma salva noi, da un’idea di maschio che non funziona più, e forse non ha mai funzionato.
E se il mondo non è ancora pronto, problema del mondo. Perché Ken, con tutto il suo stucco rosa, la rete, il gilet lilla, il ciuffo ossigenato e l’eterno sorriso, ha già vinto: è diventato icona proprio perché non era previsto che lo diventasse.
Un mito pop. Un santo patrono degli uomini che non devono dimostrare niente.
Una Barbie senza la B… E va benissimo così.




















